Articolo a cura di Luigi Odello, Centro Studi Assaggiatori
Possiamo parlare di odori cattivi quando esistono una o più delle seguenti condizioni: il sospetto igienico (l’odore di muffa nel caffè), l’evocazione di un evento negativo (il sentore del sangue per chi ha vissuto un incidente) o l’incoerenza (l’odore del burro è piacevole nelle brioche, ma non fa premio in una birra).
Va da sè che l’odore negativo è condizionato dalla cultura, quindi da fattori sociali e antropologici: il Gorgonzola, quando è buono, è sublime per noi, un po’ meno per gli orientali; l’ossidato in un Marsala non è difetto ma caratteristica peculiare, come pure lo spunto nell’aceto.
Ovviamente nel capitolo possono essere inserite le mode e le abitudini che a volte diventano storiche: lo Scotch delle Island viene riconosciuto di maggior valore in quanto sa di fenolo, il caffè dei Balcani sa di riato, la birra a fermentazione spontanea molte volte è acetosa.
Da questo punto di vista solo i tecnici sanno distinguere il vizio dalla virtù, ma in genere soccombono di fronte alla comunicazione che non di rado sfrutta caratteri estremi per dare un’identità forte al prodotto.
Una buona rassegna per farsi un’idea di quanto sia aleatoria la classificazione dei cattivi odori è stata stilata da GQ che ha proposto cibi puzzolenti tanto ricercati da raggiungere quotazioni strabilianti: Durian, un frutto indonesiano; Hákarl, carne fermentata di squalo della Groenlandia; Stinky tofu, cagliata di soia fermentata cinese; l’uovo in pasta d’argilla invecchiato tal quale per anni di tradizione orientale; Nattò, semi di soia fermentati con particolari bacilli; Jatobà, il frutto dell’albero delle locuste originario dei Caraibi; Hongeo, carne di pesce fermentata molto amata nella Corea del Sud; Stink, fagioli apprezzati in estremo oriente; Surströmming, puzzolente aringa acida svedese.