La celiachia è il disordine alimentare permanente più diffuso nel mondo occidentale, poiché interessa l’1% della popolazione generale ed insorge in individui geneticamente predisposti i quali sviluppano una reazione, che coinvolge il sistema immunitario, nei confronti di talune proteine, definite prolamine, presenti in alcuni cereali della dieta, che comprendono frumento, avena, segale e orzo; nel frumento, in particolare, la frazione proteica principale (almeno l’80%) è rappresentata dal glutine.
Il primo concetto da sottolineare è che la celiachia deve essere considerata una condizione e non una malattia in quanto, per la sua terapia, non è necessario assumere farmaci, infatti, l’unica terapia, ad oggi nota, della celiachia è rappresentata dalla dieta senza glutine, che dovrà essere seguita con attenzione per tutta la vita. Il secondo è che la dieta senza glutine non deve essere considerata una dieta “per malati” bensì un regime alimentare alternativo che va bene “per chiunque”.
Il punto cruciale è rappresentato dal fatto che l’eliminazione del glutine dalla dieta non priva il celiaco, né chiunque altro, di una proteina importante o indispensabile dal punto di vista nutrizionale. Il glutine, infatti, è una proteina di valore nutrizionale assolutamente scarso e la sua unica virtù è quella di conferire coesività ed elasticità all’impasto preparato con la farina di grano. Questa sua caratteristica, peraltro, lo rende un alimento molto meno digeribile dal momento che il nostro stomaco, durante la fase digestiva di un pasto con glutine, impiega molto più tempo a svuotarsi, circa un’ora in più, rispetto a quando deve digerire un altro alimento che non lo contiene.
“La differenza, in definitiva, ripeto sempre, quando parlo ai pazienti, è soltanto che con la farina di grano miscelata con acqua è possibile attaccare ai muri dei manifesti, mentre con quella di riso non ci potremmo mai riuscire!”
Il glutine è insomma la “colla” del grano che l’uomo ha artificialmente amplificato nel corso dei secoli, con incroci botanici ripetuti e successivi, fino ad ottenere la spiga che tutti conosciamo. Teniamo, infatti, ben presente che la specie umana, in realtà, è nata senza glutine.
L’uomo, diversi millenni orsono, quando si trasformò da cacciatore in agricoltore, cominciò ad utilizzare nella sua alimentazione altri cereali, quali il riso e il miglio, e il grano che coltivava conteneva pochissimo glutine, le sue spighe erano molto più “povere” di chicchi e rendevano poco a chi le coltivava; i venti impetuosi che battevano i campi ne staccavano facilmente i chicchi e l’impasto che si otteneva con la sua farina veniva lavorato con difficoltà. Di qui la necessità, da parte dell’uomo-agricoltore, di ottenere una varietà di grano via via più ricca di chicchi – e quindi di glutine – fino al “mostro” genetico giunto fino ai giorni nostri: “la spiga poliploide” che contiene nel suo genoma diverse decine di migliaia di geni, almeno cinque volte di più di quanti ne contiene il nostro corredo genetico, oltre a tanto, tantissimo glutine nei suoi chicchi dorati, innumerevoli e tenacemente coesi.
In fondo, mangiare senza glutine significa riscoprire alimenti che nei secoli passati erano maggiormente rappresentati nella nostra dieta e che ancora oggi rappresentano una quota preponderante dell’alimentazione della maggioranza degli abitanti della terra: il riso, il mais e i legumi. Ad oggi, infatti, circa quattro miliardi di uomini sulla terra mangiano “senza glutine” e non perché sono celiaci ma perché ne fanno tranquillamente a meno dal momento che utilizzano nella loro alimentazione cereali diversi dal frumento.