Dopo la diagnosi di celiachia i giorni passano, le settimane si moltiplicano, il ricordo dei sintomi spiacevoli si affievolisce, si ritrova l’istinto che spinge gli uomini alla ricerca del cibo, si prova nuovamente il piacere di gustare i sapori senza l’incombere dei disturbi e si rinnova, più stretto, il rapporto con la gratificazione alimentare dimenticando la mortificazione del corpo sottratto all’attacco della colla del grano.
Certo, a volte manca quella capacità di autoregolarsi visto che per tanti anni il fisico era quasi abituato a non sfruttare tutto quello che ingeriva, tanto che spesso taluni erano soliti fare “il pasto più lungo della gamba” senza rischiare (beati loro!) ipertrigliceridemie natalizie o iperglicemie pasquali, mentre ora s’impone qualche noiosa cautela supplementare. Il guaio è che, certe volte, i celiaci si sentono “a posto” anche se sanno che questo può voler dire che non lo sono affatto. Quei segnali che il nostro organismo ci invia quotidianamente non sempre riescono a inibire quella sensazione piacevole che si prova nel gustare un piatto, insieme al coacervo di circostanze, di luoghi, di fatti, di persone e di cose che si realizza in occasione di una cena in bella compagnia.
In uno dei suoi scritti, il filosofo francese Montaigne, affermava che “Mangiare è uno dei quattro scopi della vita, quali siano gli altri… dipende da individuo a individuo”.
E allora sì, diciamolo: mangiare non è solo una necessità, può diventare un piacere!
È difficile, però, parlare del gusto come pura gratificazione sensoriale parlando di malattia celiaca ed è, allo stesso modo, difficile immaginare un mondo senza glutine in cui sia preclusa la possibilità di accompagnare ai piatti tipici delle diverse realtà delle nostre regioni, le innumerevoli varietà di pane prodotte nel nostro paese, fingendo di non gradire una croccante frittura di fiori di zucca in pastella o snobbando una torta dalle millefoglie guarnita di qualche amarena e di una delicata crema pasticciera… Arduo resistere alla tentazione, di fronte a un buffet, di assaggiare una fetta di profumata mortadella o di prosciutto cotto nel timore che siano contaminate dal glutine nella loro fase di lavorazione!
Nonostante tutto però… s’ha da fare! La strategia vincente è sintonizzare i propri transistor alimentari su una lunghezza d’onda diversa, concentrandosi su quello che è consentito e non su quello che è vietato, abituandosi a gratificare il gusto rinunciando ad una cosa che finora ha fatto parte della dieta “normale” di un individuo.
Abituarsi a “pensare” senza glutine, concentrandosi sul colore e sulla forma del cibo, apprezzando il profumo del piatto, gratificandosi col gusto del principale ingrediente, che è poi quello che dà il sapore e rende ogni piatto, unico, irripetibile, degno di essere assaporato. Ricordiamoci, in fondo, della funzione biologica svolta da quello che mangiamo perché il cibo, una volta assunto, percorre il nostro intestino un tempo necessario a sottrarre quel ch’è indispensabile e ad espellere quanto non serve… infatti quello che lascia il nostro corpo è proprio quanto non era necessario trattenere per le nostre necessità.
Certo è duro da immaginare come all’improvviso cambi l’esistenza di un essere umano contemporaneo, specie se occidentale, che in media arriva a passare quasi venti ore della sua settimana a tavola, con il quale la natura, per uno scherzo dell’evoluzione, è stata tanto crudele da precludergli il sottile piacere di una bruschetta!
Nessun dramma, se ricordiamo che nella prima metà del secolo scorso la farina più diffusa, specie al nord, era quella di mais e il pane bianco è stata una conquista del primo dopoguerra. Nessun dramma se rammentiamo che agli Indios mesoamericani il frumento era assolutamente sconosciuto, fino all’arrivo di quei brutti ceffi spagnoli etichettati dalla storia come “conquistadores” mentre la loro dieta era ricca di fibre vegetali e di amidi derivati da mais e patate. Nessun dramma se pensiamo che l’intero oriente ha snobbato il frumento preferendogli il riso che, oltre a non contenere glutine, è molto più digeribile e nutriente.
E allora… dopo la diagnosi, facciamo di necessità virtù e mettiamo pure in discussione i nostri radicati costrutti alimentari, fatti di abitudini, convenzioni, luoghi comuni e, rimboccate le maniche, ricordiamoci che non possiamo immolare la nostra soddisfazione sensoriale gastronomica sull’altare di un’anomalia immunologica che, in fondo, non è neanche una malattia degna di tale nome perché scompare, se solo si elimina una proteina dalla dieta!